Intervista a Attya Omer - Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica, Milano
Il mese scorso è nata la collaborazione tra Fondazione Telethon e Women at Business, due realtà che mettono al centro del proprio lavoro empowerment, inclusione e valorizzazione.
Fondazione Telethon ETS è una delle principali charity biomediche italiane, nata nel 1990 su iniziativa di un gruppo di pazienti con distrofia muscolare. La sua missione è raggiungere la cura delle malattie genetiche rare attraverso la ricerca scientifica di eccellenza, selezionata secondo le migliori pratiche condivise a livello internazionale. Attraverso una modalità unica nel panorama italiano, si occupa della raccolta fondi, della selezione e del finanziamento dei progetti e dell'attività di ricerca stessa svolta nei propri centri e nei laboratori. Fondazione Telethon sviluppa inoltre collaborazioni con istituzioni sanitarie pubbliche e industrie farmaceutiche per tradurre i risultati della ricerca in terapie accessibili ai pazienti.
Oggi vorremmo trasmettervi perché crediamo sia importante dare spazio a realtà come la Fondazione, raccontando la storia di una ricercatrice che lavorano presso uno dei loro Istituti di ricerca, in questo caso, l’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano.
Attya, raccontaci qualcosa di te…
Buongiorno a tutti, mi chiamo Attya Omer e ho 36 anni. Sono nata a Parigi da genitori pakistani, emigrati in Francia quando erano molto giovani. Mia madre non è mai andata a scuola e non avendo potuto ricevere un’istruzione ha sempre voluto che noi figli, siamo in sei, avessimo l’opportunità di studiare. Sono cresciuta in una metropoli europea ma a stretto contatto con la comunità pakistana: ho visto ragazze cresciute insieme a me smettere di andare a scuola a 16 anni, per il solo fatto che erano donne. La mia famiglia e soprattutto mia madre ci ha spronato ad andare avanti per la nostra strada!
Qual è stato il tuo percorso scolastico?
La mia carriera scolastica è stata brillante fin dall’inizio, ma quando è stato il momento di decidere cosa fare all’università ecco che certi pregiudizi hanno fatto capolino. Nonostante fossi sempre stata tra i primi della classe, i miei insegnanti mi hanno consigliato un percorso di studi tecnico. Di fronte alla mia motivazione e ai miei ottimi voti, una professoressa mi ha chiesto perché non avessi intrapreso studi di tipo superiore: aveva ragione, infatti dopo la laurea breve in Biotecnologie, ho conseguito anche la specialistica in Neurobiologia presso l’École ratique des Hautes Etudes.
Solo qualche anno dopo ho realizzato quanto i pregiudizi riguardo al mio essere una donna dall’aspetto evidentemente non europeo avessero condizionato il mio percorso.
Quando hai deciso di diventare ricercatrice?
La motivazione è sempre stata forte: da sempre volevo diventare una ricercatrice. Così dopo la laurea ho cominciato il dottorato di ricerca all’Université Paris-Sud. Studiavo la malattia di Huntington e durante il dottorato ho fatto una breve esperienza negli Stati Uniti che mi è piaciuta molto: era un contesto multietnico e stimolante, con dinamiche molto diverse da quelle a cui ero abituata. Così al mio rientro ho deciso che volevo tornarci, ma per farlo dovevo trovare i fondi. Ho scoperto un bando di finanziamento un giorno prima della scadenza e ho passato tutta la notte a scrivere il progetto, ma ce l’ho fatta!
Negli Stati Uniti ci sono rimasta quasi tre anni. Nessuna delle donne della mia famiglia era mai andata all’estero, né aveva mai vissuto da sola: era qualcosa di nuovo che volevo assaporare fino in fondo. Ero felicissima, soddisfatta e non pensavo di tornare in Europa, almeno non nell’immediato. Ma, come spesso accade, la vita può prendere strade inattese.
Cosa ti ha fatto cambiare idea e tornare in Europa, più precisamente in Italia?
Ho ricevuto una diagnosi di tumore del sangue. La malattia per fortuna è stata curata, ma, come tanti altri pazienti, ho fatto esperienza dei pesanti effetti collaterali della chemioterapia. Poiché quello che studiavo negli Stati Uniti era molto interessante, ma con un impatto sui pazienti ancora troppo lontano nel tempo, ho deciso di cambiare ambito di ricerca. Volevo occuparmi di cellule staminali del sangue e fare qualcosa di più vicino ai pazienti, così ho chiesto al mio capo americano quale fosse il posto migliore per applicare le mie competenze di ingegneria genetica alle cellule staminali del sangue in Europa.
Il mio capo non ha avuto dubbi: il posto che faceva per me era senza dubbio l’Istituto San Raffaele Telethon di Milano diretto da Luigi Naldini. A proposito di pregiudizi… ammetto che da sola mai avrei pensato all’Italia!
Sei una ricercatrice, ma hai anche un marito e 3 figli. Come si fa a conciliare tutto questo?
All’inizio del 2019 ho iniziato a lavorare all’SR-Tiget di Milano: da una parte ero felice di iniziare a lavorare lì, dall’altra non è stato facile conciliare il lavoro con la maternità, nonostante il supporto della famiglia di mio marito. A un certo punto ho avuto un momento di sconforto: una nuova città, una figlia piccola, un nuovo lavoro su un tema nuovo… non è che forse avevo esagerato? Poi ho trovato un mio equilibrio, grazie anche al supporto dei colleghi e del mio capo.
Certo, i congedi di maternità hanno interrotto temporaneamente il mio coinvolgimento attivo in laboratorio, ma non hanno diminuito il mio impegno di ricerca. Senza contare che a partire dal terzo mese della mia seconda gravidanza è esplosa la pandemia globale di Covid-19: una situazione senza precedenti che mi ha costretta a passare al lavoro a distanza, rendendo necessario un rapido adattamento alla leadership virtuale, visto che ero responsabile della guida di un piccolo sottogruppo composto da uno studente di dottorato e da un tecnico.
Oltre alla ricerca e all’attaccamento alle tue origini e alla tua famiglia, c’è qualche altro argomento che ti sta a cuore?
Sì, sicuramente dell’inclusione delle persone straniere, sul quale c’è ancora molto su cui lavorare.
Durante il colloquio e i primi mesi di lavoro mi sono presentata indossando il velo, sia per osservare le reazioni delle persone, perché volevo la garanzia di trovarmi in un ambiente inclusivo, sia per stimolare altre donne musulmane a farlo. A volte, infatti, la paura di non essere accettate per il velo (e quindi per quello che si è) diventa un alibi per non uscire dalla propria comunità.
Quanto alla lingua, in laboratorio tutti parlano in inglese, il problema è quando si esce.
Da parte mia mi sono sforzata non solo di imparare l’italiano, che sto studiando e che mio marito parla anche in casa con i nostri figli, ma anche di coltivare le relazioni nel posto in cui lavoro.
Mi sto impegnando a promuovere un ambiente di lavoro sempre più inclusivo, che possa arricchire il dibattito, non solo scientifico.